sabato 26 aprile 2014

Swiss Press Photo 14

Mark Henley, Swiss Press photographer of the year
© 2014 Swiss Press Photo
A picture Gianluca Grossi, editor of Weast TV, took in Syria is among the best Swiss press photos of the year 2013. Glad to hear that.

© 2014 weast productions


domenica 20 aprile 2014

How many minutes three years of war - Part 2

The second part of our Web Doc How many minutes three years of war is now online. Please check it out on our Youtube channel. To watch click HERE.

© 2014 weast productions

sabato 19 aprile 2014

Quanti minuti - Parte seconda.

© 2014 weast productions
Abbiamo pubblicato sul nostro canale Youtube la seconda parte del Web Doc Quanti minuti tre anni di guerra. Potete guardarlo cliccando QUI. Protagonista, questa volta, un'altra donna, Manal. Anch'essa, come Najah, che abbiamo conosciuto nella puntata precedente, vive in uno scantinato soffocante e malsano a Beirut. Vive una vita da profughi. Insieme ad altri profughi, fantasmi di un mondo parallelo e sotterraneo nello stesso edificio, come la ragazza nella fotografia che proponiamo. Il titolo sommerso di questa seconda parte è: Quante domande in sei minuti. Domande per indirizzarci su una possibile strada da percorrere alla ricerca di un linguaggio che sappia davvero raccontare queste vite. Per incollarcele addosso.
La versione inglese sarà caricata domani.
English version will follow soon (on Sunday).

venerdì 18 aprile 2014

How many minutes three years of war.

© 2014 weast productions
Watch our latest video on Syrian refugees living in Beirut. In its Web Doc How many minutes three years of war, Weast TV tells the story of a family living in a basement in extremely difficult conditions. Despite numbers and statistics telling the world that the number of refugees in Lebanon has passed the one million mark, these lives remain mostly invisible. Weast tells one of them. To watch the video please click HERE.

Quanti minuti tre anni di guerra.

© 2014 weast productions
Weast TV pubblica sul suo canale Youtube il primo episodio di un WebDoc dedicato ai profughi siriani in Libano. Lo puoi vedere direttamente cliccando QUI. Quanti minuti 3 anni di  guerra racconta la storia di una famiglia di Aleppo fuggita a Beirut. Lo fa attraverso la testimonianza della madre, che ci accoglie in uno scantinato umido e muffoso nel quale vive con il marito e quattro bambini. È una storia di "vite invisibili", che figurano o non figurano nelle statistiche, quelle che riferiscono di oltre un milione di profughi siriani in Libano, mentre le cifre non ufficiali suggeriscono che siano molti di più. Le statistiche, tuttavia, non dicono nulla della vita di queste persone. Anzi, sono fatte per farci credere che non ne abbiano una. Il video segnala la campagna di aiuto lanciata dall'Associazione Assil, per aiutare questa e altre famiglie. L'indirizzo al quale richiedere maggiori informazioni è associazioneassil@gmail.com. Il video è stato pubblicato anche in versione inglese accessibile cliccando QUI.


giovedì 3 aprile 2014

Stressante. Come la guerra. Un video Weast TV.

Nessuno torna a casa uguale dopo essere stato in guerra. Uguale a prima. Sei una persona diversa. Questa volta non parliamo dei civili, che non posso tornare a casa, perché è lì che di casa stanno, dove si consuma una guerra. Parliamo dei soldati. Lo spunto ce lo dà la sparatoria avvenuta nella base americana di Fort Hood, Texas, dove un soldato, Ivan Lopez, ha ucciso sparandogli tre suoi compagni. Pare che ci sia stata una lite, prima. E circola voce che Lopez soffrisse del Disturbo da stress post traumatico (in inglese Post Traumatic Stress Disorder, PTSD). Aveva passato un periodo in Iraq, un turno, come si dice, con la divisa dell'esercito americano. In guerra non c'è nulla che non lasci un segno: un combattimento, una sparatoria, un'operazione speciale, la perdita di un compagno, la consapevolezza (accettata o meno) di avere ucciso dei civili, la constatazione che stai cambiando, che non sei più quello di prima. La paura: forse è proprio questa a cambiarti. Quando un soldato imbraccia un fucile ha paura, ma è una paura diversa. Forse un pilota di elicottero o di caccia non ha paura, troppo lontano, soprattutto l'ultimo. Anche i piloti hanno paura quando sono a terra. È una paura uguale a quella che invade i soldati sorpresi da un attacco mentre fanno ginnastica, o bevono un caffè o scambiano due parole fingendo di essere al sicuro.

La sequenza filmata che vi proponiamo l'aveva girata Gianluca in una base militare americana in Afghanistan. La potete vedere QUI sul nostro canale Youtube. Le immagini iniziano pochi secondi dopo che due razzi sono caduti in rapida successione all'interno della base, annunciati da un fischio terrorizzante, più di un fischio un urlo, terribile, e poi l'esplosione, con l'aria che ti spinge e tu che inizi a correre contando i secondi fino al terzo impatto, corri e ti dici che deve andarti bene, anche questa volta, che sarebbe una cazzata pazzesca se andasse al contrario.

Corri cercando uno dei rifugi creati con quattro blocchi in cemento, e insieme a te corrono soldati in calzoncini e t-shirt, sorpresi dalla minaccia e dalla improvvisa paura della morte. Il rifugio diventa una sorta di casa: quattro pareti domestiche fra le quali sfogarsi e confessarsi. È il caso del soldato con gli occhiali neri (quello che nella sequenza filmata stringe in mano il portamonete, era al bar durante l'attacco): l'audio è disturbato dal rumore degli elicotteri che si sono subito alzati in volo, ma si capisce, si capisce la sua esasperazione, la voglia di tornarsene a casa, di farla finita con questa “merda” (“shit”), la paura di “quei figli di puttana” (“motherfuckers”) che lanciano razzi, paura che diventa espressione fisica nel calcio sferrato a una bottiglietta d'acqua; e poi il ricordo del periodo trascorso in Iraq (a Mosul), paura per la presenza costante degli attentatori suicidi, scene rievocate nel rifugio esterno. È tutto troppo, anche per un soldato.

Nelle parole degli altri soldati il commento dell'attacco appena avvenuto: “ci siamo andati vicini”, "dobbiamo andare a vedere se qualcuno è rimasto ferito, se ci sono dei morti". E il silenzio del giovane soldato afgano, che dapprima cerca di calmare il suo compagno americano mettendogli una mano sulla spalla, poi si ritira. E fuma. E pensa. Infine, dagli altoparlanti, l'”all clear”, il “tuttoapposto”, potete uscire dalle vostre casette in cemento armato. E fare ritorno alla vostra vita di soldati. Che non possono avere paura, non possono ammetterla. Se te la porti dentro corri il rischio che ti spezzi. Per superarla, per vincerla, per fare in modo che se ne vada e ti lasci in pace, ora che sei tornato a casa, questa paura e tutti gli incubi che si porta appresso, per superarla sei pronto anche a tornare indietro, in quel paese dove non si faceva altro che sparare e farsi sparare. Solo che qui sei in Texas. Dove non ci sono nemici. A meno che la guerra ti ha cambiato così tanto da farti passare per nemico, ai tuoi occhi. Nemico di te stesso. E nemici tutti gli altri. Un'allucinazione, che non molla. Bastarda come nient'altro. Troppa roba per un essere umano, la guerra.